Ci sono storie che non vorremmo mai sentire perché l’angoscia che celano dentro, dopo averle ascoltate diventa anche nostra, perché sappiamo che solo un fortuito incrocio di circostanze ha fatto sì che non ne fossimo noi i protagonisti.
La storia di Norman Zarcone è una di queste.
27 anni, laureato con 110 e lode, a dicembre di quest’anno Norman avrebbe dovuto sostenere l’ultimo esame di un dottorato in Filosofia del linguaggio presso l’Università di Palermo, uno di quei dottorati senza borsa di studio, che si seguono quando la ricerca è una passione, quando la speranza che prima o poi il merito venga premiato sostituisce lo stipendio; uno di quei dottorati per i quali lo Stato dovrebbe vergognarsi per l’odioso sfruttamento dell’intelligenza, della cultura e dell’impegno dei suoi giovani talenti.
E così succede che il 13 settembre, tre mesi prima di quell’ultimo esame, questo meccanismo cinico s’inceppa, mostrando la sua crudele debolezza. Norman parla con i suoi professori, capisce di non avere un futuro dentro quell’università alla quale un giorno, appena diciottenne, ha deciso di prestare i suoi anni migliori, le sue serate trascorse sui libri, le sue speranze e i suoi sogni, credendo ingenuamente che una volta terminato il suo percorso ne avrebbe avuto in cambio un futuro, certamente non roseo, per nulla facile: ma è il futuro che lui vuole, fatto di duro lavoro e meritate soddisfazioni. Adesso Norman sa che non avrà nulla di tutto questo in cambio, che forse dovrà passare ancora tante estati, come quella appena trascorsa, a fare il bagnino al circolo nautico per venticinque euro al giorno.
Quanti sono i modi umanamente concepibili di accettare l’ingiustizia della violazione di un patto del genere?
Noi conosciamo la scelta di Norman.
Una sigaretta fumata sul davanzale della finestra al settimo piano e poi giù. Un volo che non lascia scampo, una vita che si spezza e mentre il corpo cade inesorabilmente verso il basso, migliaia di pagine di appunti, fotocopie di libri e verbali d’esame si alzano in verso il cielo, urlando la denuncia di quello che è a tutti gli effetti un omicidio di stato. In quel volo ci sono anni di sacrifici, di rinunce, di file in segreteria, di caffè scadenti al distributore.
E in un attimo niente di tutto avrà più un senso.
“La libertà di decidere è anche la libertà di morire” scrive Norman.
Ma chi mai potrebbe affermare che quella di Norman è stata una libera scelta?
I mandanti di questo omicidio hanno nomi e cognomi, percepiscono stipendi con tanti zeri, godono di immunità e privilegi, siedono tra gli scranni di un parlamento e da lì danno del “bamboccione” proprio a coloro che hanno privato dei mezzi necessari per farsi una famiglia e lasciare la casa paterna. Questi “onorevoli” signori hanno un pulsante col quale non dicono solo sì o no a una proposta di legge: con quel pulsante, premuto spesso svogliatamente per sé e anche per i colleghi che magari stanno al bar, vengono decise le nostre vite. E anche le nostre morti.
Perché oggi ricordiamo Norman? Perché non vogliamo sentire mai più di in giovane che si arrende all’incertezza. Perché vogliamo che i colpevoli paghino. Perché salendo sui tetti per dire “No” al cancro sociale di una riforma come quella Gelmini, noi diciamo “No” a chi non ha reso solo il lavoro precario, ma le nostre vite.
Quanta distanza passa tra uno dei tanti tetti oggi occupati e il davanzale di una finestra? Quale che sia, noi, giovani dal futuro precario, viviamo pericolosamente in bilico tra l’uno e l’altra.