giovedì 17 febbraio 2011

Resto o vado via? Dubbi del terzo millennio.

Qualche mese fa Fabio Fazio e Roberto Saviano, sulle note di una delle più belle canzoni di Paolo Conte, ci hanno fornito un reale e dettagliato elenco delle possibili motivazioni che spingono un uomo a scegliere tra due alternative, restare o andare via. Che si tratti di un viaggio metaforico o di una reale partenza, è questa scelta a decidere che futuro si avrà.
Chi ha appena finito o sta per portare a termine i propri studi spesso si trova davanti a questo bivio, ed è una di quelle domande chiuse, che non forniscono alternative. Tertium non datur, ma non esistono nemmeno le sfumature: non si può restare un po’ o partire un po’. O si parte o si resta. Ma tra le due sponde c’è un fiume che scorre, c’è un intero mondo. C’è la vita che vivrai, le persone che incontrerai, gli  affetti,  la carriera. Aristotelicamente, tutto è in atto fino a che non si stabilisce di porlo in essere. Andare o restare. Essere emigranti per sempre o per sempre provinciali? Salto nel vuoto o piccole certezze? Resto o vado via?
Chi va via rinuncia a qualcosa, andare è come perdere una parte di sé, quella parte che ha giocato nei cortili di una scuola elementare un po’ scalcinata, che ha fumato di nascosto nelle viuzze di un paesello dove tutti sanno chi sei e devi nasconderti davvero bene per non farti beccare, è come abbandonare il sagrato della chiesa sul quale ti sei sbucciato le ginocchia, dimenticare il sapore del caffè del bar dove hai sempre fatto colazione, non ricordare più i volti degli anziani che stanno sempre seduti sulla panchina sotto casa tua. Se decidi di partire tutto questo diventerà ricordo.
Se decidi di costruire la tua vita e il tuo futuro in un “altrove”, ovunque esso sia, ogni volta che tornerai niente di tutto ciò che avevi, di tutto ciò che eri, sarà più vissuto con il sapore dolce dell’intimità quotidiana,  ma con quel gusto amaro della voracità nostalgica.
D’altra parte chi resta, rinuncia ai sogni, spezza le ali alla possibilità di essere migliore, di essere altro, di imparare, di esperire. Magari si resta anche solo perché si spera di fare qualcosa per il bene di un luogo che non può fare del bene per i suoi abitanti, ci si immola con la speranza di invertire il trend, di fermare l’ovvia sentenza alla quale si è condannati quando si nasce in provincia. Ma nella maggior parte dei casi restare è solo un immolarsi per una causa della quale non si arriverà a vedere i benefici.
Ci vuole coraggio ad andare via, ma quanto coraggio serve per rinunciare all’idea di farlo?

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